Ho portato il mio zaino fino a qua e l’ho lasciato sotto un cartello che, sotto un teschio, avverte “attenti al treno”.
Non c’e’ ferrovia per miglia.
Il senso di inquietudine e’ profondo: come quando per strada si incontra il segnale di pericolo generico ma non si specifica cosa si debba temere.
C’e’ buio, un deserto blu livido infastidisce un cielo chiaro e pieno di stelle, se all’improvviso, da dietro la collina sbucassero alieni, zombies o altre "forme di vita" non ne sarei affatto sorpreso.
La verita’ e’ che qui una volta c’era una citta’.
Poi una notte, 40 anni fa, la terra tremo’. E la citta’ non fu piu’.
Ci vollero giorni perche’ si riuscisse a capire cosa era successo, questa terra era sempre stata trascurata.
e fu quasi naturale coerenza continuare a farlo per giorni, nonostante un terremoto di decimo grado della scala Mercalli.
Si penso' che l'assenza di notizie fosse un buon segno.
In realta' la mancanza di notizie era dovuta al fatto che il terremoto aveva inghiottito tutto: strade, citta’, ferrovia, persone. Contro tutto cio’ v'erano 80.000 persone che erano rimaste vive, ma senza casa.
Chi lo vide da un aereo defini’ il paesaggio "postatomico".
Passo’ del tempo, si capi’ l’entita’ della tragedia, ci si rimbocco' le maniche, si inizio’ la ricostruzione.
Negli anni successivi molti architetti "donarono" progetti per far si che le citta’ uccise potessero divenire una citta' nuova, moderna, ideali. Citta' vennero ricostruite da zero.
C’era entusiasmo, speranza, come sempre accade quando si e’ visti passare davanti la morte.
Era voglia di vivere, ed era voglia di farlo nel modo migliore.
Anni dopo, visitai questa citta’ (foto).
L’autobus arrivava attraversando i campi gialli di grano. Passava sotto una stella gigante che mi appariva immensa e si fermava sotto una torre in cui era rimasta impigliata una nuvole che suonava. Mi sembrava davvero la citta’ ideale, pensai che mi sarebbe piaciuto vivere li'.
Tornandovi dopo anni, capii lo stridente contrasto che costituivano tutti quelli spazi abbandonati.
I vecchietti, che in qualsiasi altra parte, in giorni come quelli, avrebbero cercato un po’ di refrigerio nell’ombra delle stradine strette, ora si muovevano come relitti sofferenti, al centro di viali deserti.
La vecchia citta’ troppo distrutta per essere ricostruita era stata ricoperta da cemento: le vecchie strade erano ora spaccature della terra arsa: il cretto di Burri.
Tutt’attorno, opere incompiute, scheletri di edifici ora cadentii e arruginiti o paradossi laceranti: villette a schiera di stile Olandese, pensate probabilmente per essere costuite davanti al mare che invece fronteggiavano il deserto. Un po' mi vergognavo, ma ero contento di non abitare in una moderna necropoli vivente.
Chi aveva progettato tutto aveva dimenticato una cosa: l’uomo.
La gente era andata via, un po’ perche’ perdi le radici capisci che in forse e’ meglio cambiare tutto.
Un po’ perche’ non si puo’ vivere in un museo se non si ha di cosa mangiare....e chi aveva portato tutto quel cemento e ferro si era dimenticato di portare un lavoro duraturo. A vederla da terra questa citta’ mi sembrava un paesaggio postatomico. Le speranze e i sogni di cambiare tutto erano divenute col tempo solo avvilimento e disperazione.
Mi sono levato lo zaino, e un vento freddo gela la schiena.
Mia nonna mi direbbe di indossare un maglione, ma non lo faccio.
Il vento mi fa sentire vivo in un posto che era poco, venne colpito dalla natura, si illuse di potere diventare qualcosa, e infine divenne niente.
Sono passati 40 anni e nessuno ha ricordato il terremoto del Belice. Del resto, il niente, si dimentica in fretta.
Non c’e’ ferrovia per miglia.
Il senso di inquietudine e’ profondo: come quando per strada si incontra il segnale di pericolo generico ma non si specifica cosa si debba temere.
C’e’ buio, un deserto blu livido infastidisce un cielo chiaro e pieno di stelle, se all’improvviso, da dietro la collina sbucassero alieni, zombies o altre "forme di vita" non ne sarei affatto sorpreso.
La verita’ e’ che qui una volta c’era una citta’.
Poi una notte, 40 anni fa, la terra tremo’. E la citta’ non fu piu’.
Ci vollero giorni perche’ si riuscisse a capire cosa era successo, questa terra era sempre stata trascurata.
e fu quasi naturale coerenza continuare a farlo per giorni, nonostante un terremoto di decimo grado della scala Mercalli.
Si penso' che l'assenza di notizie fosse un buon segno.
In realta' la mancanza di notizie era dovuta al fatto che il terremoto aveva inghiottito tutto: strade, citta’, ferrovia, persone. Contro tutto cio’ v'erano 80.000 persone che erano rimaste vive, ma senza casa.
Chi lo vide da un aereo defini’ il paesaggio "postatomico".
Passo’ del tempo, si capi’ l’entita’ della tragedia, ci si rimbocco' le maniche, si inizio’ la ricostruzione.
Negli anni successivi molti architetti "donarono" progetti per far si che le citta’ uccise potessero divenire una citta' nuova, moderna, ideali. Citta' vennero ricostruite da zero.
C’era entusiasmo, speranza, come sempre accade quando si e’ visti passare davanti la morte.
Era voglia di vivere, ed era voglia di farlo nel modo migliore.
Anni dopo, visitai questa citta’ (foto).
L’autobus arrivava attraversando i campi gialli di grano. Passava sotto una stella gigante che mi appariva immensa e si fermava sotto una torre in cui era rimasta impigliata una nuvole che suonava. Mi sembrava davvero la citta’ ideale, pensai che mi sarebbe piaciuto vivere li'.
Tornandovi dopo anni, capii lo stridente contrasto che costituivano tutti quelli spazi abbandonati.
I vecchietti, che in qualsiasi altra parte, in giorni come quelli, avrebbero cercato un po’ di refrigerio nell’ombra delle stradine strette, ora si muovevano come relitti sofferenti, al centro di viali deserti.
La vecchia citta’ troppo distrutta per essere ricostruita era stata ricoperta da cemento: le vecchie strade erano ora spaccature della terra arsa: il cretto di Burri.
Tutt’attorno, opere incompiute, scheletri di edifici ora cadentii e arruginiti o paradossi laceranti: villette a schiera di stile Olandese, pensate probabilmente per essere costuite davanti al mare che invece fronteggiavano il deserto. Un po' mi vergognavo, ma ero contento di non abitare in una moderna necropoli vivente.
Chi aveva progettato tutto aveva dimenticato una cosa: l’uomo.
La gente era andata via, un po’ perche’ perdi le radici capisci che in forse e’ meglio cambiare tutto.
Un po’ perche’ non si puo’ vivere in un museo se non si ha di cosa mangiare....e chi aveva portato tutto quel cemento e ferro si era dimenticato di portare un lavoro duraturo. A vederla da terra questa citta’ mi sembrava un paesaggio postatomico. Le speranze e i sogni di cambiare tutto erano divenute col tempo solo avvilimento e disperazione.
Mi sono levato lo zaino, e un vento freddo gela la schiena.
Mia nonna mi direbbe di indossare un maglione, ma non lo faccio.
Il vento mi fa sentire vivo in un posto che era poco, venne colpito dalla natura, si illuse di potere diventare qualcosa, e infine divenne niente.
Sono passati 40 anni e nessuno ha ricordato il terremoto del Belice. Del resto, il niente, si dimentica in fretta.