Sunday 19 September 2010

Storie di famiglia

Il mio bisnonno Mario ad un certo punto venne chiamato a prendere parte alla storia e mandato in prima linea nella grande guerra.
Dice che all'inizio non era stato un grande cambiamento: che tanto zappava i suoi campi, e zappava in quelle montagne.
L'unica differenza era che non cresceva niente.
Poi arrivo l'inverno e quella terra triste gelo' e divenne impossibile da zappare.

Della guerra Mario ricordava l'inutlita', e il fatto che un paio di volte l'avevano sparato, nella notte i suoi commilitoni.
Quei geni Normanni solidamente innestati nel DNA Siculo, oltre a permettere di combattere il nanismo insulare, avevano giocato un bello scherzo al mio avo: che era  alto 1,80 e con due profondi occhi verdi. In apparenza piu' un Austriaco che un Siculo.
Nella notte, i suoi commilitoni, al grido "megghiu dire ki ni sacciu ca ki nni sapia" "meglio dire che ne so che, che ne potevo sapere"; "better safe than sorrow".
Avevano sparato. Per fortuna le sue bestemmie sparate nella notte erano valse piu' di una targhetta di identificazione. E cosi' s'erasalvato.
Poi la guerra fini'. A lui che non aveva studiato molto avevano dato un
diploma e lo avevano chiamato cavaliere ed era tornato a coltivare la sua vigna.
Si racconta poi che Mario osservasse gli avvenimenti del dopoguerra con preoccupazione crescente. Pensava che da veterano allo scoppio di una nuova guerra mondiale sarebbe stato mandato di nuovo su quelle montagne gelate.
Pensava all'Africa, piu' simile alla sua terra e pensava che avrebbe preferito zappare per coltivare che per nascondersi dal nemico.
Ci sono dei momenti in cui una persona ha la lucidita' necessaria per leggere eventi che si evolvono su scala mondiale.
Sapeva che nelle colonie durante la grande guerra non erano state toccate dalla guerra e sapeva che lui voleva la pace.
Consapevole di tutto cio', decise di partire come volontario per la Somalia.
Siccome il fato beffardo spesso aspetta che gli uomini recrimino il controllo del loro destino per colpire: il suo villaggio fu il primo ad essere attaccato e a cadere.
Il mio bisnonno si fece 5 anni nei campi di prigionia inglesi.

Quando l'ho conosciuto io era taciturno e curvo. Piegato dagli anni e dagli sforzi non sembrava nemmeno cosi' alto, anche se gli occhi non avevano perso lucentezza.
Verdi erano, come una vite contorta e dall'apparenza sofferta sotto cui amava dormire.
Era facile da riconoscere: non era mai stata legata a un palo ed era cresciuta secondo l'istinto e la natura.
Quella vite non ha mai prodotto un granche', ma e' sempre stata un monumento di famiglia.
I miei cugini non hanno mai conosciuto il trisavolo, eppure chiamano ancora oggi quella pianta: "la vite del nonno Mario".

Saturday 4 September 2010

Le città hanno dei linguaggi tutte loro.

A volte parlano con segni astratti, in genere non son mai banali.
Riflettevo su ciò mentre prendevo un autobus.
Il segno “
mind your head mi faceva riflettere.
Mi costringeva a preoccuparmi della mia testa, dei pensieri che dovevano, appunto essere ben pensati, “prima di attivare la bocca verificare che il cervello sia inserito”. Il cartello esortava a fare lo stesso: a mettere la mente (mind) nella testa.
Il segno era davvero notevole.
Più avanti, camminando notai un altro segno che recitava “Look right”.
Come interpretare questa esortazione se non come un incitamento a osservare (look) ciò che è giusto (right) con lo scopo di seguire i modelli migliori e pertanto rendersi più perfetti.
Eppure non potevo fare a meno di notare la dicotomia che voleva quella frase a significare Appari (look) in maniera corretta (right).
L’asserzione, seppure vanesia e di impronta epicurea non era del tutto errata: non era forse vero che, sebbene l’abito non faccia il monaco, tuttavia ad ogni funzione si addice una veste? Se uno vuole essere visto come giusto, forse un po’ deve apparire come tale.
Leggevo la città come un manuale di filosofia (visto che anni prima avevo usato le ore di filosofia per leggere fumetti).
La metropolitana mi riservava ancora una sorpresa con il suo messaggio: mind the gap.
Incredibile. Nevvero?
La metropolitana di Londra mi esortava a occuparmi delle lacune, riconoscendo la natura perfettibile, seppur erronea per definizione dell’essere umano.
Convinto che questa conversazione con la città m’avesse, se non arricchito, spinto a riconsiderare il mio io, le mie ambizioni e a riconoscere le mie lacune, con lo scopo di porvi rimedio, finalmente giunsi all’aereo che mi portava verso la ventina di giorni di meritata vacanza estiva.
Ponderavo ancora tutto ciò quando, percorrendo in moto lentamente via Zenone (che noi del classico via Zenone la si percorre sempre in prima anche se con una moto di grossa cilindrata per via di certi paradossi, Achilli e tartarughe che non sto qui a spiegare).
Vidi verso la fine della strada un cartello.
Sotto v’era scritto "
Zona Disco".
Cercai di interpretare il segno si ermetico e criptico.
Accanto al cartello non v’erano discenti, né docenti che peripateticamente tramandavano il loro sapere.
Poi la sera vidi tanta gente che ballava discotecaramente attorno al cartello il ballo di Simone.